Dalla descrizione del Presidio Slow Food (link):
Ciminà è un comune di 700 abitanti della Locride, il cui territorio ricade nel Parco Nazionale dell’Aspromonte. Il caciocavallo si produce in questa zona da tempi immemorabili. Nella Grecìa calabra, così viene definita l’area ellenofona che fa capo genericamente alla Bovesia, molti nomi di località hanno radici nella Grecia antica: il nome stesso di Ciminà deriva dal greco kyminà, ovvero luogo dove abbonda il cumino selvatico o ciminaia. La colonizzazione ellenica riguardò anche i Balcani si ritiene che queste terre siano state potentemente contaminate anche da influenze balcaniche. Com’è ormai certo, il caciocavallo trova infatti il suo antenato nel kaskaval, una pasta filata prodotta ancora oggi dalla Macedonia alle isole dell’Egeo, la cui origine ci porta direttamente alle popolazioni nomadi della steppa. Si fanno buoni caciocavalli in tutta la Calabria, o meglio in tutto il sud Italia, e la tecnica è più o meno la stessa per tutti, ma la differenza la fanno i pascoli, i climi, le mani dei casari. A Ciminà, ad esempio, il caciocavallo si fa a due testine, è un formaggio piccolo, allungato, caso unico nel panorama caseario, anche se non è citato espressamente con questo nome su nessuna pubblicazione di settore. Ma si lavora anche nella forma ovoidale classica. Il peso va da 400 grammi a 3 chilogrammi.Questo formaggio ha un’altra particolarità: si coagula ancora il latte crudo, di vacca e a volte anche parzialmente di capra, quasi sempre con caglio naturale di capretto. Una volta rotta con lo spino la cagliata, che i pastori chiamano tuma, si formando coaguli grandi quanto una nocciola che si raccolgono e compattano, facendo fuoriuscire il siero. Questa massa viene lasciata fermentare anche più giorni, secondo l’andamento climatico, e poi tagliata a fette e filata nell’acqua bollente. Infine si passano le forme nella salamoia per un giorno circa e si appendono poi ad asciugare a cavalcioni della tradizionale pertica.